Tra libertà di manifestazione del pensiero e violenza domestica. A commento di Tölle c. Croazia

La Corte europea dei diritti dell’uomo torna ad occuparsi di violenza domestica o, sarebbe meglio dire, sceglie di occuparsene ancora in occasione della recente sentenza resa sul caso Tölle c. Croazia del 5 gennaio 2021

Sceglie di occuparsene, perché la vicenda portata dinanzi alla Corte di Strasburgo non riguarda direttamente un episodio di violenza domestica (come in altri casi recenti, si pensi a Talpis c. Italia, al deludente Kurt c. Austria oppure, ancora, a Volodina c. Russia), bensì la condanna penale di una donna (la ricorrente), presidente di un’associazione croata impegnata sul fronte del sostegno alle vittime di violenza, rea di aver pubblicamente accusato un uomo di abusi ripetuti ai danni della moglie.

L’uomo aveva, infatti, reso un’intervista ad un quotidiano locale, suggerendo responsabilità dirette da parte dell’associazione presieduta dalla ricorrente ed imputando a quest’ultima la sottrazione della figlia della coppia da parte della madre.

Nell’ambito di un’intervista radiofonica di poco successiva, la ricorrente aveva, viceversa, negato ogni responsabilità, soffermandosi piuttosto a descrivere la vicenda di cui era stata vittima la moglie dell’uomo a cui l’associazione aveva fornito sostegno per alcuni mesi – anche tramite l’ospitalità presso una casa rifugio –, formulando accuse precise nei confronti del marito maltrattante.

L’uomo aveva successivamente sporto denuncia nei confronti della donna, dando così avvio al procedimento giurisdizionale nazionale conclusosi con l’accertamento in via definitiva della responsabilità penale della donna, sanzionata al pagamento di una somma pecuniaria invero irrisoria (circa 70 euro) e ad un’ammonizione.

La donna, esperite tutte le vie di ricorso interno come imposto dall’art. 35 CEDU, si è, così, rivolta alla Corte europea dei diritti dell’uomo, lamentando, anzitutto, la violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, a salvaguardia del proprio diritto alla libertà di manifestazione del pensiero.

La Corte europea, con una sentenza interessante, ha accolto le doglianze della ricorrente, soffermandosi in modo particolare sull’importanza che il tema della violenza domestica riveste nel dibattito pubblico e nel sistema sovranazionale di tutela dei diritti.

Nel bilanciamento tra tutela dell’onore e della reputazione, in questo caso dell’uomo accusato di violenza domestica, e libertà di manifestazione del pensiero della donna, la Corte europea ha tracciato una linea netta in favore della seconda. Ciò, non solo e non tanto per ragioni connesse ad una lettura particolarmente ampia e protettiva della libertà di espressione individuale, sempre caratterizzante la giurisprudenza convenzionale, quanto piuttosto a motivo del contenuto oggetto delle dichiarazioni della donna.

La circostanza che la donna si stesse occupando di un episodio di violenza domestica, tema definito dalla Corte di Strasburgo di sicuro pubblico interesse, è sufficiente per il Giudice europeo a rendere l’interferenza nell’esercizio del diritto alla libertà di manifestazione del pensiero illegittima e ingiustificata nel sistema della Convenzione.

La Corte europea ricorda, infatti, che sono particolarmente circoscritte le ipotesi in cui possono considerarsi legittime restrizioni alla libertà di manifestazione del pensiero quando il contenuto attenga ad un tema di pubblico interesse.

Nella sentenza in commento, la Corte europea non si limita però soltanto a dare seguito alla propria giurisprudenza consolidata sull’art. 10 della Convenzione, escludendo il carattere “necessario in una società democratica” della interferenza sofferta dalla ricorrente nel godimento del suo diritto ad esprimersi liberamente e a diffondere il contenuto delle proprie idee. Piuttosto – sottolinea la Corte – è la circostanza che oggetto del dibattito fosse il fenomeno della violenza domestica a fondare a maggior ragione il carattere illegittimo dell’interferenza. 

La violenza domestica costituisce, infatti, materia di sicuro pubblico interesse ed è – “deve” sembrerebbe suggerire la sentenza – oggetto di un dibattito sociale, che la Corte europea appare decisa a valorizzare qualificandolo quale motivo specifico ed ulteriore della violazione della Convenzione.

In una pronuncia che solo tangenzialmente tocca il fenomeno della violenza nei confronti delle donne, la Corte europea non ha quindi perso l’occasione per rileggere le circostanze del caso concreto assicurando rilevanza all’esigenza che sia garantita un’attenzione adeguata al tema in esame, soprattutto quando quest’ultimo accede al dibattito pubblico e mediatico.

L’importanza di una simile scelta interpretativa si coglie anche sotto l’angolo prospettico della tenuità della sanzione comminata nei confronti della ricorrente. La non severità del trattamento sanzionatorio avrebbe potuto, infatti, indurre la Corte europea a soprassedere sull’accertamento della violazione, essendosi l’interferenza nell’esercizio del diritto tradotta in una sanzione non particolarmente inflittiva. Sul punto, invece, è chiara la Corte nel sottolineare che, ancorché la sanzione sia tenue e tale da non impedire alla ricorrente dal partecipare alle attività dell’associazione di cui è membro, essa ciò nonostante ha natura penale e si atteggia ad una sorta di censura che potrebbe scoraggiare le finalità che persegue l’associazione nel prossimo futuro. Anche questo passaggio della motivazione è esemplare ed espressivo della sensibilità prestata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo al tema della violenza contro le donne unitamente alla determinazione nell’impiego delle proprie prerogative allo scopo di offrirvi una tutela efficace almeno entro il sistema della Convenzione.

Una sola nota critica investe, invece, l’omesso riferimento alla Convenzione di Istanbul, che pure avrebbe potuto arricchire e sostenere gli argomenti spesi dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Si tratta di una dimenticanza criticabile almeno per due ordini di ragioni. 

Dal punto di vista dei rapporti tra trattati negoziati nell’ambito del Consiglio d’Europa, la circostanza che la Corte europea dei diritti dell’uomo non poggi la propria motivazione anche sulla Convenzione di Istanbul indebolisce la portata della seconda, già priva di un organo giurisdizionale deputato a sanzionarne violazioni da parte degli Stati contraenti e dei privati.

In seconda istanza,  l’assenza di riferimenti alla Convenzione di Istanbul priva la sentenza della Corte europea di argomenti utili a sostegno della sua centralità, pure ammessa dalla Corte europea ma in modo forse troppo debole e non adeguatamente motivato. Se infatti è meritorio il riferimento alla importanza di assicurare un dibattito pubblico aperto e non soggetto ad illegittime restrizioni sul tema della violenza domestica, è altrettanto vero che la

Corte europea avrebbe potuto spiegarne più approfonditamente le ragioni avvalendosi della Convenzione di Istanbul che costituisce essa stessa espressione di quell’esigenza.

In terzo luogo, e sotto un profilo di carattere più politico, il silenzio serbato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo sulla Convenzione di Istanbul si rivela particolarmente problematico se si considera la fase di difficile transizione che sta attraversando il primo ed unico trattato del Consiglio d’Europa interamente dedicato alla violenza contro le donne e alla violenza domestica a seguito della recente uscita della Turchia e delle analoghe spinte centrifughe condivise da altri Stati contraenti dell’Europa dell’est.

Per concludere, sebbene positiva appaia la chiave di lettura con cui la Corte di Strasburgo ha scelto di inquadrare il caso in esame, non confinandolo ad un’univoca verifica in punto di compatibilità/non compatibilità della vicenda concreta con il principio di libertà di manifestazione del pensiero, continua a destare più di una perplessità la refrattarietà con cui il Giudice europeo si rapporta con la Convenzione di Istanbul, sempre più relegata sullo sfondo e trattata, nella migliore e più rara delle ipotesi, quale mero ausilio interpretativo. Una tendenza che sarebbe quanto mai opportuno invertire per respingere quel fenomeno di gender backlash che si sta pericolosamente diffondendo dentro e fuori i confini del continente europeo.

Leggi nel sito della Corte europea dei diritti umani