Con la sentenza qui allegata la Corte d’Appello di Firenze riforma la pronuncia di condanna resa in primo grado nei confronti di sei imputati per il reato di violenza sessuale di gruppo (art. 609 octies c.p.) e per quello di violenza sessuale (art. 609-bis, comma 2, n. 1). In particolare, il verdetto assolutorio viene emesso perché “il fatto non sussiste”, a motivo della non attendibilità della testimonianza della donna.
Il caso, noto alle cronache come “lo stupro della Fortezza da Basso”, si è concretizzato in plurimi atti di violenza che commessi nel luglio 2008 in danno di una ragazza, la quale veniva dapprima palpeggiata nelle parti intime, poi immobilizzata e condotta in un luogo appartato dove, in una automobile, veniva costretta con violenza a subire rapporti sessuali completi con ciascuno degli imputati.
In particolare merita attenzione il linguaggio discriminatorio utilizzato nella decisione di appello, che si coglie, tra gli altri, nel passaggio in cui si descrive la persona offesa come: “un soggetto fragile, ma al tempo stesso creativo, disinibito, in grado di gestire la propria (bi)sessualità, di avere rapporti fisici occasionali, di cui nel contempo non era convinta […]” (pt. 21).
Passata in giudicato la sentenza in questione, la donna ha presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, lamentando la violazione degli artt. 8 e 14 della Convenzione a motivo del linguaggio discriminatorio utilizzato nella decisione di secondo grado.
Con la sentenza JL c. Italia, la Corte europea ha accolto il ricorso e ha accertato la violazione del diritto al rispetto della vita privata (art. 8 CEDU).