Negli ultimi giorni, le parole di Elena Cecchettin, sorella della 105esima vittima di femminicidio in Italia nel 2023, stanno dividendo il dibattito pubblico in merito a quali, tra gli strumenti attuabili, sia il più adatto a contrastare un fenomeno pregnante e problematico come quello della violenza di genere.
Il femminicidio rappresenta infatti l’apice di una piramide che vede parti nascoste e che trovano la giustificazione alla propria sopravvivenza in una cultura, definibile come rape culture o cultura dello stupro, profondamente radicata nella nostra società patriarcale.
«Un mostro è un’eccezione, una persona esterna alla società, una persona della quale la società non deve prendersi la responsabilità. E invece la responsabilità c’è», afferma Elena Cecchettin.
«I “mostri”» – continua – «non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro». Le parole di Elena Cecchettin devono essere riconosciute nella loro importanza, non soltanto perché provengono da una giovane donna, ma perché suscitano clamore, disaccordo, perplessità. La giovane donna infatti sembra allontanarsi dal paradigma del “lutto”, non rispettando le aspettative della società.
Le sue dichiarazioni devono spingere a riflettere ancora di più su che cosa manchi, sul perché quanto detto sconvolge ancora così tanto.
Delle risposte a tali quesiti si possono ben trovare proprio nella definizione della c.d. cultura dello stupro: questa, infatti, può essere definita come «l’insieme di schemi cognitivi che plasmano in modo distorto la percezione e l’interpretazione degli episodi di violenza». Essa è strettamente connessa al victim blaming in quanto «l’interiorizzazione dei miti dello stupro andrebbe ad influenzare l’attribuzione di biasimo alle vittime e a minimizzare la gravità dell’episodio di vittimizzazione». Infatti, nella maggior parte dei casi di violenza, la donna è costretta a diventare l’oggetto dell’intera indagine, sottoposta ai riflettori di un pubblico che la giudicherà per gli abiti indossati, per la propria vita sessuale, per il solo fatto di non aver opposto resistenza ad una violenza o per aver acconsentito a presentarsi “all’ultimo appuntamento”.
Quanto sconvolge dei recenti casi di cronaca di femminicidi è inoltre la giovane età di molti degli autori di questi efferati crimini, un’età che rientra in quelle generazioni che dovrebbero essere più formate sul tema della parità, dell’inclusione e dei diritti delle donne. Che cosa determina, allora, la loro azione omicida, che richiama, nella sostanza, gli stessi schemi di sempre?
Episodi di questa portata devono far riflettere sul ruolo del diritto, su che cosa ancora deve essere fatto. Non si può non riconoscere come, oggi ancora di più, sia sempre più necessaria un’educazione sentimentale e sessuale che venga impartita fin dalla giovane età e che possa contestualmente creare un ambiente di inclusione e parità, dove la donna non è considerata come un “secondo sesso”, ma al pari dell’uomo.
Molto, moltissimo ancora deve essere fatto: i numeri e le leggi non bastano.
Rassicura, dall’altro lato, il sostegno che Elena Cecchettin sta ricevendo da migliaia di donne, unite nella stessa lotta e battaglia.
Il sostegno, attraverso i canali social, vede la condivisione di una poesia, di cui si può leggere di seguito un estratto:
«[…] Lotta per le ali delle donne, le quali mi hanno tagliato. Lottate affinché siano libere e volino più in alto di me. Combatti per farli urlare più forte di me.
Possano vivere senza paura, mamma, proprio come ho vissuto io.
Mamma, non piangere le mie ceneri.
Se domani tocca a me, mamma, se non torno domani, distruggi tutto.
Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima».
Cristina Torre Cáceres, 2011