Intervista al Presidente f.f. Fabio Roia e all’Avv.ta Manuela Ulivi

In occasione della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, l’Università degli studi di Milano ha organizzato l’evento “Violenza di genere e società: educare per prevenire“, che ha visto la partecipazione dei co-fondatori del nostro Osservatorio, Fabio Roia (Presidente f.f. del Tribunale di Milano) e Manuela Ulivi (Avvocata e Presidente Casa delle Donne Maltrattate di Milano).

Gli ospiti hanno discusso su importanti temi su sollecitazione di tre domande, poste dai membri del nostro Osservatorio: Sara Di Giovanni (Dottoranda di ricerca in Diritto costituzionale), Isabelle Consolini (Studentessa di Giurisprudenza) e Biagio Consiglio (Studente di Giurisprudenza).

Le domande sono state preparate e condivise all’interno delle attività formative dell’Osservatorio sulla violenza contro le donne.

Di seguito, l’intervista trascritta.

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Sara Di Giovanni (Dottoranda di ricerca in Diritto costituzionale, Università degli studi di Milano): A fronte dei 106 femminicidi che l’Italia ha registrato nel 2023 e a fronte delle centinaia e migliaia di violenze che le donne subiscono, un problema che gli operatori che si occupano di violenza di genere si trovano a dover affrontare è il dato sommerso. Intendendo quest’ultimo con la quantità di violenze non percepite e quindi non contrastate, quanto è importante che si agisca anche sul dato sommerso e come è possibile mettere in luce le altre forme di violenza che rimangono “nascoste”?

Manuela Ulivi (Avvocata, Casa delle Donne Maltrattate):

Ci siamo poste il problema già a partire dagli anni Ottanta e ci siamo rese da subito conto che il “come fare” richiede un lavoro complesso e costante, in quanto lavoriamo con qualcuno che rema contro di noi. La forte emozione provocata dal femminicidio di Giulia Cecchettin sicuramente muove moltissimo. Tuttavia, oltre ad aver avuto un’altra donna uccisa perché si potesse parlare di nuovo del problema, emerge come viviamo in una società che non fa quello che diciamo e che chiediamo. Ad esempio, aprendo i social, sicuramente troveremmo delle frasi di odio, rivolte a donne che vengono sbeffeggiate, derise e offese in quanto una donna che espone le proprie considerazioni sui propri canali social è una donna che riceverà quasi sicuramente derisioni e critiche, se non addirittura odio e insulti.

Per rispondere alla domanda, credo che il lavoro sia costante e continuo: abbiamo scoperchiato il vaso di Pandora ma non abbiamo fatto abbastanza. Come CADMI noi riceviamo centinaia di donne all’anno e queste donne, sempre più giovani peraltro, sono in situazioni che in qualche modo, magari con forme diverse, ricalcano condizioni che erano di 50-60 anni fa. Sembrano cose vecchie e antiche, ma in realtà si presentano con forme e modalità diverse. Dobbiamo dunque stare attente e attenti a come si parla tra di noi, a come ci si relaziona tra maschi e femmine non solo nel rapporto di coppia, ma anche nei contesti amicali e sociali.

Il lavoro che abbiamo fatto è quello di cominciare a dire che cos’è la violenza, come si manifesta. Il fulcro del problema non è quello di fare sempre e solo questi discorsi quando accadono femminicidi, ma anche quando vediamo qualcuno che utilizza frasi offensive, che si pone in modo dominante e anche aggressivo nei confronti di una donna perché donna.

Questo il dato: ed è un dato che nella nostra società rileviamo nei contesti sociali, scolastici e lavorativi. Abbiamo quindi un lavoro molto capillare da fare.

Fabio Roia (Presidente f.f. del Tribunale di Milano):

Laddove si vede che le denunce aumentano, significa che c’è un segnale positivo dal territorio. La donna denuncia quando trova una rete istituzionale che la accoglie, la ascolta e le rappresenta una fiducia; perché è molto forte il passaparola invece quando le cose vanno male.

Se c’è un posto di polizia in un determinato territorio che è respingente, per cui se una donna va e vuole denunciare si sente dire “ci pensi un attimo perché questa non è la via, in fondo ci sono dei figli, è sempre suo marito” viene disincentivata. Dunque, quel territorio avrà meno denunce degli altri perché c’è un modo di accogliere che non è empatico e rappresentativo di quello che deve essere fatto.

Guardando ai dati, Milano ha avuto un aumento delle denunce nell’ultimo anno. Questo è sicuramente un dato positivo, che tuttavia merita una considerazione: non sempre è opportuno andare nell’ambito penale, perché oggi noi abbiamo moltissime leggi che a seconda della situazione di violenza e del profilo di pericolosità dell’autore della violenza, ci consentono di attingere altri settori.

Il settore civile propone, infatti, ordini di protezione, mentre il settore amministrativo propone gli ammonimenti del Questore, una sorta di “cartellino giallo” con cui si diffida l’uomo violento a cessare quella condotta violenta.

Abbiamo tante strade da percorrere nell’ambito della protezione delle vittime di violenza. Al tempo stesso, però, ci deve essere una rete con centri antiviolenza professionali e competenti perché quello è il primo luogo dove qualsiasi donna che ha problemi di violenza può rivolgersi. È possibile anche che la donna non percepisca la violenza da lei subita, ed è per questo che è importante il ruolo delle amiche, che io ho provato a definire “sentinelle sociali”. Le amiche devono aiutare la ragazza, la donna a capire che probabilmente dietro la gelosia, il possesso, il controllo si nasconde un uomo violento. Le persone vicino alla donna, devono sostenerla e aiutarla ad avviare un percorso in un centro antiviolenza affinché con l’anonimato, con la segretezza, con le competenze si possa capire come muoversi e quali strade aprire.

Quando c’è una rete che funziona, il sommerso diminuisce progressivamente.

Isabelle Consolini (Studentessa di Giurisprudenza, Università degli studi di Milano):

Ci volevamo concentrare sul ruolo cruciale della denuncia. A vostro avviso quanto è importante denunciare? Che ruolo può svolgere la denuncia? Sapreste individuare un momento più opportuno per denunciare? Esiste veramente questo momento più opportuno?

Fabio Roia: La denuncia o comunque l’attivazione di sistemi di protezione è fondamentale perché ritengo che da soli non si riesca ad uscire da questo legame tossico. Questo per una serie di motivi: l’uomo violento è manipolatorio, perché esiste un ciclo della violenza che presenta, dopo una fase di aggressione, una fase di quiete, di “luna di miele”: questo inganna molto la donna.

Il fatto di parlarne aiuta, la denuncia è l’inizio di un percorso, non la fine. Noi continuiamo a dire “donne denunciate”, ma è necessario attuare un sistema giudiziario penale che sappia dare risposte con alcune caratteristiche. Innanzitutto, che non sia un sistema vittimizzante: la donna che denuncia non deve diventare l’imputata, ma la persona da tutelare. Questo purtroppo accade ancora perché, a parte i pregiudizi che ci portiamo dietro, ci possono essere forme di vittimizzazione involontarie che derivano dalla non corretta applicazione dei numerosi istituti di tutela processuale di cui oggi abbiamo bisogno. Quindi, la denuncia è l’inizio di un percorso che deve essere fatto unitamente alla donna e che richiede la partecipazione attiva di tutti gli attori del processo penale, dalla polizia giudiziaria, al pubblico ministero, agli avvocati, ai giudici che conoscano la materia e che quindi non studino solo il diritto, ma anche tutte le scienze complementari che aiutino nella comprensione del fenomeno. Io, ad esempio, non potrei mai fare un processo penale per violenza sessuale senza sapere quali sono, e se ci sono, indicatori specifici di violenza sessuale. Questo è un qualcosa che non si insegna nella facoltà di giurisprudenza, ma magari nella medicina legale. Questa è la formazione interdisciplinare necessaria richiesta per affrontare in maniera più competente possibile il fenomeno della violenza di genere.

Se c’è un momento per denunciare, in particolare per le donne che sono mamme, quel momento deve scattare quando c’è un coinvolgimento dei figli, perché poi ci può essere un problema di intervento esterno, volto alla tutela dei minori, che può vittimizzare la donna. I bambini che assistono a situazioni di violenza sono bambini che sviluppano traumi: assistere non significa essere presenti alle aggressioni fisiche, ma respirare e vivere in un contesto di violenza. Secondo le neuroscienze, questi bambini sviluppano traumi immediati, per esempio vanno male a scuola, hanno incubi notturni, oppure possono sviluppare traumi mediati: se maschi, possono diventare a loro volta violenti, se femmine possono sviluppare una situazione di maggiore vulnerabilità e un rischio maggiore di diventare vittima.

Questi sono dati che ci riportano anche i processi penali: quando c’è un coinvolgimento dei minori, ferma la libertà di scelta, soprattutto del percorso da seguire, si dovrebbe ritenere che quello indicato potrebbe essere il momento in cui agire.

Manuela Ulivi: Partendo dal fondo della domanda, il tempo in cui fare la denuncia è necessario sceglierlo se si può.

A volte, la denuncia viene presentata sull’onda di un fatto gravissimo, magari l’ultimo: si corre al pronto soccorso perché si necessita di cure e poi si presenta la denuncia. Questo fa sì che la donna non abbia preventivamente le informazioni necessarie per sapere che cosa vuol dire una denuncia, che processo mette in atto. Questo aspetto risulta ancora più pregnante laddove vi siano minori coinvolti: essi, infatti, vengono subito segnalati alla Procura minorile e quindi parte automaticamente un percorso giudiziario. A questi due percorsi se ne aggiunge un terzo di tipo amministrativo e la Procura minorile passa al servizio sociale. Il lavoro del centro antiviolenza è quello di preparare al tempo giusto anche per la denuncia, dove possibile. La donna deve sapere a che cosa va incontro e deve scegliere bene questo percorso. Gli uomini violenti, infatti, sono dei grandissimi manipolatori e in questa manipolazione cadono sia gli assistenti sociali che i giudici.

Avevamo in Procura tantissime richieste di archiviazione: questo non perché le donne si inventassero, o si inventano tutt’ora, fatti che non esistono. Le denunce sono tantissime, i magistrati non sono abbastanza numerosi e quindi anche la fase delle indagini ne risente. Questo comporta che, non avendo elementi sufficienti per andare avanti nell’accusa, il Pubblico Ministero richieda l’archiviazione. Una denuncia che finisce in un’archiviazione è un danno enorme da due punti di vista: uno, per la frustrazione subita dalla donna vittima di violenza e quindi per la vittimizzazione secondaria; l’altro, dal punto di vista del maltrattante che, nei confronti della donna, dice “vedi, non ti crede nessuno”.

Il problema è infatti anche credere alla donna, è anche svilire e far tornare la donna dentro una situazione di chiusura.

C’è un problema di formazione grandissimo ma anche di scelta di tempi.

Biagio Consiglio (Studente di Giurisprudenza, Università degli studi di Milano):

Nell’ottica dell’importanza della sensibilizzazione, volevamo chiedervi se sapreste raccontarci un caso che nella vostra esperienza personale vi ha particolarmente colpito oppure che vi ha reso ancora più consapevoli della centralità del vostro operato all’interno della società.

Fabio Roia: Vorrei raccontarvi due episodi, uno finito bene e uno finito male.

All’epoca del primo episodio che vorrei raccontarvi, ero un Pubblico Ministero. Si trattava di Quello di una donna somala, residente in Italia, che aveva presentato una denuncia per le violenze subite. Abbiamo ottenuto la custodia cautelare in carcere e il processo per maltrattamenti si è celebrato addirittura in un’unica udienza, terminata con la condanna dell’uomo. Terminato il processo penale, la donna, sola sul territorio, senza lavoro e senza sapere dove andare, è stata aiutata da una rete che si è messa in moto progressivamente. Probabilmente violando qualche regola deontologica (mi autodenuncio), l’ho aiutata anche personalmente. Alla fine, la donna ha acquisito la cittadinanza italiana ed è stata assunta in un’Università, parla italiano, ha cresciuto due figli e si è definitivamente inserita. Questo per dire che dalla violenza si può e si deve uscire.

Molto spesso raccontiamo storie negative perché vogliamo migliorare il sistema e quindi andiamo ad analizzare che cosa non funziona, però dobbiamo anche constatare che ci sono moltissime donne che grazie alla rete e al sistema giudiziario ottengono giustizia ed escono dal ciclo della violenza. Questo è un messaggio fortemente positivo che mi sento di dare.

Anche all’epoca del secondo episodio ero ancora Pubblico Ministero e, in collaborazione con un grande ispettore di polizia giudiziaria, occupandoci di un “banale” incidente stradale di una donna investita apparentemente da un ignoto, che si era dato alla fuga con una macchina su una strada provinciale, abbiamo visto che la donna in passato aveva sporto delle denunce per maltrattamenti. Ci era quindi apparso probabile che quella donna – che a seguito dell’investimento si trovava in uno stato paraplegico totale tale che rispondeva soltanto con il cenno degli occhi – potesse essere stata investita dal marito. Abbiamo, quindi, riaperto le indagini e siamo andati a rivedere tutti i rapporti. Il caso era stato molto frettolosamente archiviato come incidente stradale a carico di ignoti, con mezzo non identificato. Ci siamo recati anche dalla donna, che nessuno aveva fino a quel momento sentito anche per le sue condizioni di salute. La donna effettivamente con gli occhi ci aveva risposto che l’investitore era suo marito. Abbiamo imbastito un’accusa di tentato omicidio, riaprendo il caso. Io purtroppo – o per fortuna – sono stato eletto al CSM e non me ne sono più occupato, ma il caso ha trovato un’assoluzione nel dibattimento. Quindi quello che secondo me era un tentato omicidio perché la donna ce l’aveva detto con gli occhi, con l’emozione, con quella parte di corpo che ancora poteva rivivere quel momento e rispondere alle domande, non ha trovato una validazione in sede processuale.

Questa è stata una sconfitta che ci ha provato, perché abbiamo capito che la giustizia – che è una risposta umana attraverso una regola convenzionale, e dunque non rappresenta la verità assoluta – in quel caso, non era stata fatta.

Manuela Ulivi:

Anzitutto, sottoscrivo l’ultima considerazione del Dott. Roia.

Di casi ne ho in mente tantissimi, ma vorrei portarne un paio.

Il primo, che definirei abbastanza positivo vedeva coinvolta una signora che ha subito violenza per tantissimi anni, almeno venti, e che è arrivata alla denuncia nel momento in cui l’uomo ha messo in pericolo di vita tutta la famiglia. Arrivata alla denuncia, ha scelto la strada della separazione con due figli piccoli. Da una parte, la denuncia ha avuto il suo corso perché, avendo sentito in incidente probatorio i figli minori, si è provato abbastanza velocemente quello che succedeva in questa famiglia e in particolare l’ultimo fatto che ha messo in pericolo tutti.

C’è stata una prima condanna, confermata in appello, con contestuale risarcimento piuttosto importante: 100.000€, più 30.000€ per ciascuno dei due figli. In ambito civile, nella separazione, non è andato tutto benissimo: di fronte alla questione della genitorialità, si è dovuti accedere ad un accordo. Nel frattempo, il rapporto tra padre e figli era ripreso: l’uomo all’inizio era controllato attraverso i servizi sociali e con incontri protetti. La situazione si è evoluta con un accordo finale rispetto alla separazione. Questo, tutto sommato, posso considerarlo un caso positivo.

Un caso, non ancora definito, che mi ha molto scossa è stato quello tipico della problematica dell’alienazione parentale. Quando le donne sporgono denuncia, queste vengono ritenute spesso “strumentali” dai giudici civili, in quanto si pensa che le donne lo facciano per avere dei vantaggi nei procedimenti di separazione. In questo caso, la signora aveva denunciato non un maltrattamento su di sé, ma un maltrattamento sui minori e in particolare su un bambino con problematiche importanti, che il padre pensava di risolvere a “suon di botte”.  La signora non è stata creduta e la denuncia è stata archiviata: il procedimento per lesioni, nonostante gli evidenti segni sul corpo del bambino, non è andato avanti. La donna, a seguito di una consulenza tecnica d’ufficio all’interno della causa di separazione, si è vista allontanare i figli, poi inseriti in comunità per un anno.

In seguito, tutti hanno capito che questa era una cosa sbagliata con pregiudizio e danni per i bambini, che sono stati poi riportati dalla madre. La conclusione non l’abbiamo ancora perché stiamo aspettando da più di 6 mesi la sentenza che il Tribunale non emette. Questo rappresenta un ulteriore pregiudizio anche nei confronti dei minori che, reclamati dal padre con sua contestuale richiesta di essere messi in comunità se non fossero potuti andare presso di lui fissi, oggi come oggi vedono l’uomo una volta al mese, nonostante gli incontri possano essere definiti, con le loro tempistiche, dal Tribunale.

Questo è uno dei casi in cui maltrattamento e violenza agiti sui minori, dove ci dovrebbe essere più attenzione, porta a una punizione non solo della madre, ma anche dei bambini di 7 e 9 anni, nel momento in cui sono stati inseriti in comunità. Lì hanno perso i contatti sociali, lo sport, la scuola, gli amici.

Ci sono dei casi in cui ci arrabbiamo molto, ma speriamo che questo caso si concluda positivamente.